Le protesi mammarie
Le protesi mammarie sono impianti utilizzati in chirurgia estetica negli interventi di mastoplastica additiva e mastopessi, per modificare o ingrandire il volume dei seni femminili, e in chirurgia plastica ricostruttiva per sostituire i seni eventualmente asportati a seguito di interventi di mastectomia.
Il primo intervento di mastoplastica additiva è stato documentato nel 1895 in Germania, e può essere considerato a tutti gli effetti un intervento di trapianto autologo: si trattava infatti dell’asportazione di un lipoma dalla schiena di una donna, il cui il grasso fu riutilizzato per impiantarlo nel suo seno, reintegrandone i quadranti mastectomizzati dallo stesso chirurgo a causa di un tumore.
Le protesi mammarie esistono in varie taglie, provenienti dalla combinazione della misura della proiezione (la profondità, o lo spessore), e della misura della base, per meglio adattarsi alle differenti caratteristiche morfologiche del seno della paziente, e sono generalmente divise in rotonde, di più facile inserzione e posizionamento per via della forma simmetrica, e anatomiche, dalla caratteristica forma a goccia preformata, che consente una migliore resa estetica finale, a scapito di manovre di gestione e posizionamento più complesse.
Come nel caso degli espansori tissutali, le protesi di qualità migliore hanno superficie esterna ruvida o testurizzata, che permette una migliore adesione ai tessuti circostanti, ed una ridotta probabilità di contrattura capsulare.
Esistono tre tipologie principali di impianti prostetici mammari: le protesi con soluzione salina, le protesi di silicone, e le protesi a laccio. Esistono anche protesi composte di materiale cellulare autologo, fatto moltiplicare su impalcature di materiale biocompatibile, dove le cellule staminali prelevate dal midollo osseo dello stesso paziente, subiscono una trasformazione in tessuto adiposo che incrementa il volume della mammella, senza la normale perdita di volume che caratterizza l’invecchiamento delle protesi artificiali: si tratta però di tecniche ancora in fase di sperimentazione, che richiederanno probabilmente anni prima di essere implementate efficacemente.
Le protesi con soluzione salina, hanno struttura e tecnologie molto simili agli espansori tissutali: sono composte da un involucro esterno di elastomero siliconico, riempito poi di soluzione fisiologica. Il vantaggio principale è sia l’adattabilità della misura, decisa al momento stesso dell’intervento, e modificabile sino al raggiungimento del risultato desiderato, sia alla ridotta dimensione dell’incisione chirurgica, dato che al momento dell’inserzione la protesi vuota risulta molto più piccola delle altre. La cicatrice chirurgica sarà quindi meno visibile, ma queste protesi sono più soggette ad increspature e corrugamenti molto antiestetici.
Le protesi di silicone sono anch’esse composte da un guscio esterno di silicone, che contiene un gel di silicone di coesività variabile, in modo da garantire una consistenza quanto più possibile naturale. Per via dell’elevata qualità e sicurezza d’impiego, il 90% delle protesi impiantate appartengono a questa categoria. Esistono ancora protesi tecnologicamente più vecchie, in schiuma di poliuretano, ma la possibilità che una rottura di queste possa provocare danni alla salute, le ha rese ormai una soluzione sorpassata.
L’ultimo tipo di protesi sono quelle a laccio, costituite da fibre di polipropilene intrecciate a gomitolo, ed in grado di assorbire acqua in modo continuativo. La loro struttura causa uno stato di infiammazione tissutale continuo, che richiama acqua dai tessuti circostanti, provocando il progressivo rigonfiamento di queste protesi, che continuano quindi ad aumentare di volume nel tempo. Utilizzate in passato nell’industria del porno, sono oggi poco utilizzate sia per il rischio di incremento asimmetrico delle dimensioni dei seni, che va costantemente corretto da inoculazioni di soluzione fisiologica e drenaggi, sia per l’effetto irrealistico e poco verosimile dei seni giganti, considerati esteticamente poco gradevoli.